D'istinti Sud

Innamorati della Roma ma non dei cliché

martedì, agosto 01, 2006

L'epopea di un presidente


(IL ROMANISTA) - C’è qualcosa di eroico in Franco Sensi. C’è qualcosa di eroico nell’arrivare a 80 anni, piegato ma non vinto da tante battaglie e troppi malanni, e annunciare al mondo: "La Roma la porto avanti io, fino alla morte". E poi commuoversi fino alle lacrime davanti all’immensità di questo proposito. E non avere più parole per continuare il discorso. Perché non c’è altro da aggiungere dopo una frase così definitiva. Assoluta. Fino alla morte. Che altro vuoi dire? C’è qualcosa di ammirevole nel trovare la forza di guardare avanti con il solito caparbio ottimismo e mostrare una voglia di vincere ancora intatta, quando l’impero che hai costruito in una vita di lavoro riduce i suoi confini giorno dopo giorno. Inesorabilmente. Inevitabilmente. E non puoi farci nulla. Perché così è la vita, a volte. Il conto può essere più salato di quello che avevi previsto e quel che è peggio è che ti chiedono di pagarlo quando meno te lo aspetti, anzi, quando meno te lo meriteresti, perché i tuoi avversari storici hanno perso, finalmente. Hanno perso la faccia e non solo. Oggi tutti sanno perché Franco Sensi sfidava Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Adriano Galliani. Oggi tutti hanno capito chi aveva ragione. Ma è tardi per i risarcimenti. Ed è invece ora di saldare il conto. Subito.
Tredici anni fa, quando assieme a Pietro Mezzaroma comprò la As Roma, Franco Sensi era uno degli uomini più di ricchi di Roma. Anzi, d’Italia. Non era solo un fatto di soldi, ma di aziende petrolifere, e terreni, e immobili. Era "solido", come si dice negli ambiente finanziari. A quei tempi chi lo ha frequentato racconta che quando si affacciava dalla finestra del suo studio, a Villa Pacelli, indicando il panorama di Roma Nord, il presidente dicesse: «Quello che vedo è tutto mio». Esagerava, ma neanche troppo. Dieci anni e uno scudetto dopo, nel dicembre del 2003, l’impero dei Sensi era però in ginocchio. Schiacciato da una montagna di debiti. Diciamo 680 milioni di euro e non ci sbagliamo di molto. Creditore di questa somma immensa era il sistema bancario nel suo complesso, precisamente sette istituti, ma soprattutto uno, la Banca di Roma, alla quale faceva e fa riferimento circa il 70 per cento dell’indebitamento del gruppo.
Proprio nella sede della Banca di Roma nel maggio del 1993, Franco Sensi aveva comprato la Roma realizzando il sogno che era stato del padre Silvio e compiendo il suo destino, in fondo. Era stato il banchiere Cesare Geronzi ad invitarlo al grande passo per salvare la società giallorosa dal fallimento. La firma fu messa in una sala pomposa con mogano lucido ovunque e grandi quadri dell’800 alle pareti. Dalle finestre dell’ottavo piano del palazzone che sovrasta via Tupini, il laghetto dell’Eur dà una illusoria sensazione di pace e benessere. Quel giorno, rispetto all’appuntamento fissato dal banchiere, Pietro Mezzaroma tardava ad arrivare, allora Sensi disse: "Se non viene, faccio tutto da solo". Non era una sbruffonata. Sei mesi dopo la Roma era solo sua. Dieci anni e uno scudetto più tardi, qualcos’altro era cambiato: i rapporti fra Sensi e Geronzi erano peggiorati parecchio. Il presidente della Roma rimproverava al banchiere di aver aiutato troppo Lazio e Parma foraggiando i loro patron, Cagnotti e Tanzi, nelle fallimentari operazioni delle rispettive aziende, Cirio e Parmalat. E anche su questo punto ormai si è capito che Sensi non aveva tutti i torti, anzi. Quanto alla Gea, la società fondata dalla figlia del banchiere Chiara Geronzi, con i figli di Tanzi e Cagnotti, a Franco Sensi quella cosa lì non era mai piaciuta. Già prima che si fondesse con la Football Management del figlio di Luciano Moggi. Al punto che aveva dato ordine al direttore sportivo dell’epoca Franco Baldini di evitare persino di trattare giocatori di quella scuderia. Diciamo che ai vertici c’era più di qualche attrito, quindi. Ma nel dicembre del 2003, i rapporti personali passavano necessariamente in secondo piano davanti alla situazione di un gruppo imprenditoriale che aveva 1300 miliardi di debiti con le banche. Quello che è accaduto nei mesi seguenti, i romanisti lo sanno bene, anche perché la Roma ne ha risentito in maniera diretta: praticamente da allora la società non ha più fatto investimenti di calciomercato. Per quattro sessioni consecutive, il saldo finale di acquisti e cessioni è stato positivo. E di molto, in certi casi. Per usare le parole che piacciono ai manager finanziari, diciamo che "il trading di calciatori è servito a realizzare gli obiettivi di risanamento del piano industriale". Ma in fondo tutto ciò, per quanto importante, era marginale rispetto a quanto stava accadendo nel cuore dell’impero dei Sensi.
In breve, nella primavera del 2004 tutte le attività dei Sensi sono state ricondotte in una unica società, la holding Compagnia Italpetroli spa; il 51 per cento è stato diviso in parti uguali fra Rosella, Maria Cristina e Silvia Sensi, le tre figlie di Franco e Maria Nanni (che hanno mantenuto una quota simbolica pro forma), mentre il restante 49 per cento lo ha preso in garanzia Banca di Roma, che in questa operazione si è mossa e si muove come capofila degli altri istituti di credito coinvolti. L’accordo era semplice fino alla brutalità: un manager scelto di comune accordo, Paolo Giorgio Bassi, avrebbe gestito la Compagnia d’accordo con la Famiglia Sensi, in un imponente piano di dismissioni che in due anni avrebbe dovuto ridurre di circa due terzi l’esposizione con le banche. Se ciò non fosse avvenuto, dal maggio del 2006 Banca di Roma aveva la facoltà di acquisire un ulteriore 2 per cento di Compagnia Italpetroli e quindi il controllo assoluto del gruppo. Da allora in poi, le condizioni di salute hanno immediatamente costretto Franco Sensi ha fare un passo indietro, o anche due, rispetto alla gestione degli affari correnti, che è passata nelle mani delle figlie, in particolare di Rosella. E anche in Banca di Roma, che nel frattempo è entrata a far parte del gruppo bancario Capitalia, alcune disavventure giudiziarie hanno costretto Cesare Geronzi ad un ruolo più defilato, a vantaggio dell’amministratore delegato Matteo Arpe, giovane, di bell’aspetto, ma soprattutto bravo. Il piano di dismissioni è stato imponente e doloroso: via via sono stati ceduti l’hotel Cicerone, il Corriere Adriatico, i terreni della Leprignana che furono teatro della festa per lo scudetto, i grattacieli della Magliana che ospitano l’Onu. E ancora la quota degli Aeroporti di Roma, quella della Casina Valadier, e le partecipazioni in tante altre società. Nel frattempo nelle restanti attività del gruppo, suddivise in tre grandi comparti (petrolio, immobili e calcio) i conti venivano rimessi in ordine non senza qualche sacrificio, come accaduto per la As Roma. Mentre un concreto, importantissimo aiuto è arrivato dal Comune di Roma, che all’unanimità, nella primavera scorsa, ha votato per l’edificabilità dei terreni di Torrevecchia, portando il loro valore da 6 a circa 80 milioni. In fondo il progetto di Cittadella dello Sport per i Sensi è stata l’unica vera buona notizia di questi anni.
Arrivati alla fine di maggio, cioè due mesi fa esatti, era lecito sperare che il traguardo fosse raggiunto. Che gli sforzi avessero avuto successo. E invece no, purtroppo. L’indebitamento del Gruppo resta attestato ad una cifra che chi ha visto i conti dice essere fra 350 e 400 milioni di euro. Mentre l’obiettivo era di scendere a 150 milioni, con una tolleranza fino a 200.
Per la famiglia Sensi sentirselo dire è stato come completare la maratona di New York e sul traguardo capire che si è arrivati solo a metà strada. Che c’è un’altra maratona davanti. Ti tremano le gambe, e non solo per la fatica. Teoricamente la Banca di Roma avrebbe potuto esercitare la "call" e acquisire un ulteriore 2 per cento e con esso il controllo di Compagnia Italpetroli. Se così avesse fatto, i Sensi avrebbero perso tutto, compresa la Roma. Ma Arpe non ci ha pensato nemmeno per un minuto: e non solo perché nei confronti di questa famiglia ha il massimo rispetto. Traslocare il volante della società di calcio giallorosa, negli uffici di una Banca sarebbe stata una grana pazzesca. Allora sono ripartiti i negoziati con la Famiglia Sensi per trovare un nuovo accordo. Che a grandissime linee sarebbe questo: entro 18 mesi, Compagnia Italpetroli dovrà vendere beni per altri 200 milioni di euro. Praticamente una Roma e mezzo. La firma non c’è ancora stata, sebbene i documenti siano pronti da qualche giorno e la Banca di Roma in un certo senso la dia per scontata a questo punto perché la situazione del gruppo è in un vicolo cieco: nel gergo bancario, si chiama "semaforo blu" la situazione nella quale ogni attività è bloccata. E’ questo il motivo per cui Rosella Sensi si è sentita rifiutare delle fideiussioni per poter fare acquisti di calciomercato. Un motivo puramente tecnico: in assenza di un accordo e di un piano di rientro, chi può accordare una fideiussione ad un gruppo già così esposto? Con le nuove regole bancarie che vanno sotto il nome di "Basilea 2", nessuno. Inutile purtroppo, per la giovane Sensi, spiegare che la Roma oggi è una società sana e che proprio adesso ha l’occasione per investire e tornare nel grande calcio. I soldi per il calciomercato saranno quindi solo i dieci milioni che la Uefa garantisce a chi partecipa alla prima fase della Champions League. Milioni che scendono ad otto e mezzo per effetto della operazione di factoring che la Roma farà subito, per avere oggi la disponibilità dei soldi che incasserà fra qualche mese.
Per una grande Roma ci vorrebbero nuove risorse, nuovi ricavi, nuove entrate. Ma intanto nel quartier generale devono vendere beni per 200 milioni di euro. Quali, ancora non si sa. Ma una cosa è certa: c’è qualcosa di eroico nell’andare avanti così.
Riccardo Luna