(IL MESSAGGERO) - Il tempo passa. E purtroppo, il tempo è denaro. In cinque mesi e una settimana, la Roma resta la stessa, nonostante un nuovo tecnico, qualche titolare in più e nessuno in meno. Dal derby apparecchiato del 15 maggio a quello solo giocato di domenica sera è come se non fosse cambiato niente. Quattordicesima era, quattordicesima è. Classifica da retrocessione, dun que: a tre punti dal terz’ultimo posto alla trentaseiesima giornata del campionato scorso; a cinque all’ottava di questo. Eppure la Roma, paragonabile per il monte stipendi solo alle prime tre della graduatoria,
continua ad avere ingaggi da scudetto. La forbice tra le tre grandi e il gruppo di Spalletti è ampia (la Juve è già quindici punti avanti). Andrebbe usata, ci venga perdonato l’accostamento, per tagliare certi stipendi ormai incomprensibili, fuori mercato, visto il rendimento dell’attuale rosa. Giocatori che percepiscono ingaggi da top player e che invece non si comportano da calciatori nemmeno di serie A. Alibi legati agli allenatori, cioè al gioco, ai metodi, alla preparazione, alla tattica e a tutto il resto non reggono proprio più. L’organico attuale è sopravvalutato, come dice Montella. In più si è imborghesito e non ha fame. La Roma è sazia e anche per questo sembra che ti faccia un favore quando gioca. Provate a leggere questa formazione: Doni (o Curci, fa lo stesso, considerati gli scarsi guadagni di entrambi), Bovo, Kuffour, Cufrè, Alvarez, Tommasi, Kharja, Aquilani, Totti, Taddei, Nonda. Tenendo presenti i risultati di inizio stagione sono gli unidici giocatori che, per gli ingaggio percepiti, dovrebbero rappresentare la Roma quattordicesima. Kuffour, Cufrè, Taddei e Nonda hanno stipendi di un certo peso, ma comunque nella norma. Il rendimento dei primi tre è più che accettabile, quello del quarto, anche se altalenante, diventa sufficiente per le tre reti segnate che fanno impressione se paragonate al digiuno di Montella o di Cassano, all’unica rete realizzata da Mancini, due giorni prima di provare a
scappare a Torino. Capitolo a parte Totti, il cappello, sin troppo grande, usato da chi si siede in panchina per coprire i problemi: fa il regista, il trequartista e il centravanti, in attesa di trovare il tempo per fare il papà. Questa Roma ha la pancia piena. Si abbuffa di euro e in campo al massimo cammina. La società giallorossa in questa stagione pagherà
trenta milioni di euro netti ai giocatori (il costo per la proprietà è però il doppio, sessanta milioni lordi e diventano quasi novanta se si considerano i premi, lo staff tecnico e altri collaboratori). Per fare il paragone più vicino, basta prendere il monte ingaggi della Lazio. Quattordici milioni netti, meno della metà di quello della squadra giallorossa in crisi. Si sa che la Roma paga ancora l’effetto scudetto, cioè di cinque stagioni fa. Nella speciale classifica dei paperoni del pallone è quarta, pur avendo un organico dimezzato rispetto a quelli di Juventus, sessantatrè milioni netti, Milan, cinquantacinque, e Inter, quarantasei. Seguendo gli attuali piazzamenti, dal terzo posto in giù non c’è una proprietà che paghi quanto la famiglia Sensi (per la precisione, solo per le società quotate in Borsa i dati sono ufficiali): Fiorentina sedici milioni, Chievo quattro, Livorno due e mezzo, Sampdoria nove e mezzo, Empoli quattro, Palermo sette e ottocentomila, Udinese sei, Siena tre, Ascoli due, Reggina, due e mezzo, Parma quattro, Messina tre e trecentocinquantamila, Lecce tre e mezzo, Cagliari quattro, Treviso tre. Tanto per fare un esempio, Cassano, due presenze e due sconfitte, da solo guadagna più di tutto il Siena. Sommando gli ingaggi di Totti e Montella, si potrebbero mantenere tre squadre, al completo, che precedono la Roma: il Chievo, l’Empoli e il Livorno. Può bastare? No. La prossima mossa, letti questi dati, dovrebbero farla direttamente i vip giallorossi: passare in sede per autoridursi i rispettivi stipendi. Magari con un patto. Tornerebbero d’attualità solo in caso di quarto posto. Ci guadagnerebbero tutti. Anche loro, al momento di andare in giro per Roma o seplicemente quando si specchiano la mattina per farsi la barba.
Ugo Trani